Questo libretto speciale uscito per i tipi di Quodlibet nel 2013 è un’antologia di prose brevi, a volte brevissime, con cui Matteo Terzaghi dà una personale risposta al problema contemporaneo tanto dibattuto della sovrabbondanza di immagini con cui veniamo investiti da ogni parte, in ogni momento. Non è che lo si possa inquadrare come un libro di cultura fotografica, men che meno di pratica. Piuttosto si tratta di un testo che usa le fotografie come dispositivi del pensiero e della fantasia e la cultura fotografica come ambiente per riflettere sulle stesse, o su altro.
Attingendo ad un immaginario delicatamente predigitale, Terzaghi si sogna operatore di un misterioso Ufficio proiezioni luminose nel reparto amministrativo di una biblioteca in cui vengono depositate e ritirate immagini in continuazione. Il suo compito è corredarle di una didascalia. L’atmosfera è al tempo stesso seria e allegra. È da questa dimensione contemporanea ma decelerata, e alleggerita del peso negativo della polemica passatista, che si dipanano queste piccole storie ragionate.
È difficile dare alla prosa di Terzaghi un inquadramento letterario più preciso: include la narrazione, ma non si tratta di racconti, ricorre a riferimenti autobiografici ma non è diaristica. Inoltre sottende a tutto questo un registro saggistico che però – meravigliosamente! – non si verticalizza mai in un’analisi di argomenti che porterebbero altrove. Tutto resta piacevolmente orizzontale e centrato, presente, come la qualità della scrittura, che è la vera forza gravitazionale che tiene tutte queste impressioni sparse, insieme. Una scrittura limpida e leggera: non nel senso dell’inconsistenza, ma in quello calviniano di una gravità senza peso.
Il motivo per cui vale la pena soffermarsi sul libro in toto e non solo su come le fotografie ci funzionano dentro, è che non esiste una vera separazione tra testo e immagine, come spesso succede quando si tenta una commistione tra due linguaggi. Non ci si muove, qui, su binari paralleli. E in effetti, Terzaghi, che non è un fotografo, non è neanche uno scrittore tradizionalmente inteso. La sua pratica è decisamente più artistica che prettamente letteraria, e lo è in maniera più evidente nelle produzioni indipendenti in collaborazione con Marco Zurcher, grafico, che mettono in forma ancora diversa questo rapporto tra la fotografia e il suo racconto.
Ogni storia è un cerchio che si apre inaspettatamente e si richiude con grazia, inanellando in un giro virtuoso immagini, impressioni, considerazioni dotte e sogni lucidi. A volte disegna perimetri lunghissimi e allora si tratta di cerchi nel senso di un girare in tondo, intorno ad un nucleo, senza fissarlo mai. L’orbita – dice l’autore in un’intervista – è il movimento che fa il pensiero quando si raccoglie intorno a qualcosa. A volte invece sono punti fissi, che colpiscono la nostra corteccia come sassi l’acqua e allora i cerchi sono quelli che si generano da noi, che vibriamo di suggestioni e nuove domande.
– Pubblicato nel 2013 per i tipi di Quodlibet, Ufficio proiezioni luminose ha vinto il ”Premio svizzero di letteratura 2014”.
– Nel 2020 per la stessa collana è uscito La terra e il suo satellite, che è meno circoscritto alla visione e le immagini, ma si pone in continuità con il testo precedente.
– Gran parte della sua produzione riguarda però i libri d’artista co-creati con Marco Zurcher a partire dal 1995. Di uno dei più recenti, Hotel Silesia c’è un’approfondita video recensione di Luca Panaro.
– Il riferimento “calviniano” è al saggio sulla Leggerezza di Italo Calvino, in Lezioni Americane.
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